Hobbes e lo stato di natura

Vorrei essere libero come un uomo

Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia

E che trova questo spazio

Solamente nella sua democrazia

Che ha il diritto di votare

E che passa la sua vita a delegare

E nel farsi comandare

Ha trovato la sua nuova libertà”

La Libertà, Giorgio Gaber

Oggi ricorre la nascita nel 1588 di Thomas Hobbes, uno dei fondatori della filosofia politica moderna, e autore del Leviatano (1651), la sua opera principale, nella quale esamina i concetti di stato di natura, ossia la condizione dell’uomo in assenza del controllo di un’autorità statale, e di diritto di natura, ossia la libertà dell’individuo di fare tutto ciò che ritiene necessario per garantire la propria sopravvivenza e per perseguire la propria soddisfazione. Per il filosofo britannico questa libertà verrebbe esercitata della persona contro i suoi simili, portando inevitabilmente disordine, caos e guerre. Per evitare che ciò accada è necessario secondo Hobbes, il passaggio dallo stato di natura allo stato civile, attraverso la stipulazione di un contratto con il quale gli uomini rinunciando al loro diritto di natura, determinano la nascita della società civile, e il loro assoggettamento ad un’autorità superiore (definita dall’autore come leviatano, una creatura mostruosa e potentissima di origine biblica), quale male necessario.

Il rifiuto del riconoscimento di un diritto di natura fa di Hobbes quindi un precursore del giuspositivismo, ossia quella dottrina secondo la quale le uniche leggi valide sono quelle poste dall’autorità vigente.

Hobbes si è inserito nella principale controversia filosofico-giuridica della storia, ossia il confronto fra giusnaturalismo e giuspositivismo.

Il giusnaturalismo è quella corrente di pensiero che presuppone l’esistenza di norme di condotta umane, universalmente valide e immutabili, fondate su un diritto di natura preesistente al “diritto positivo” derivato dallo stato, e per questo motivo maggiormente legittimato a regolare i rapporti fra gli individui e i loro governanti e fra gli stati stessi.

Passando per il contributo di innumerevoli filosofi tra cui, per citare i principali Ugo Grozio, John Locke e Jean-Jacques Rousseau si arrivò al punto decisivo della questione in occasione del processo di Norimberga. I gerarchi nazisti infatti secondo l’ideologia giuspostivista non sarebbero potuti essere condannati, in quanto stavano applicando le norme vigenti. Venne avvertita quindi chiaramente l’esigenza di un diritto che trascendesse il cosiddetto diritto positivo. Nacque così nel 1948, sotto una netta impronta giusnaturalista la Dichiarazione universale dei diritti umani, che costituisce l’esito di un’elaborazione secolare dei principi etici stabiliti dalla Bill of Rights Britannica, dalla Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America e dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino redatta durante la rivoluzione francese.

Con un orientamento giuridico sempre più indirizzato verso il diritto naturale, riemerge oggi con forza la questione di una sua attuazione più profonda nel contesto globale, e una riformulazione moderna del concetto di stato di natura. In merito a ciò nell’opera Giusnaturalismo e positivismo giuridico (1965), Norberto Bobbio, filosofo, giurista e storico, evidenziò come ci fosse ancora incertezza nel definire se “l’istinto naturale” umano fosse favorevole alla società (come proposto da Aristotele definendo l’uomo un “animale sociale”), o contrario (come sostenuto da Hobbes citando Plauto con la famosa espressione latina “homo homini lupus”). Oggi più che mai questo quesito risulta centrale in quanto la motivazione principale che da sempre ha sostenuto la necessità di una repressione degli istinti, ossia la carenza di risorse per soddisfare i bisogni fondamentali di tutti gli individui (cosa che spingerebbe ad una lotta per la sopravvivenza), con il progresso tecnico moderno potrebbe essere superata. Se la repressione avesse quindi ragioni unicamente storiche, adesso queste sarebbero sempre meno legittime. Per questo motivo l’ideale di una liberazione sociale e psicologica, è stato relegato all’ambito dell’utopia o della distopia, così da disinnescare gli effetti dirompenti che potrebbe avere sul sistema, qualora se ne prendesse piena coscienza. Inoltre con le possibilità offerte oggi, in termini di liberalizzazione del sapere (anche grazie ad un utilizzo critico e consapevole dei social media), le conseguenze auspicabili nel caso di un superamento dell’ordinamento patriarcale oppressivo, sarebbero quelle di un’evoluzione culturale riguardo il nostro rapporto con gli altri e con la natura, una assunzione di responsabilità per la propria condizione, e la riappropriazione in ciascun individuo della sua autonomia decisionale a lungo delegata.

Si tratta di comprendere in che direzione può evolvere l’organizzazione statale ed economica odierna, e capire se un giorno sarà possibile o meno una riduzione del suo controllo diretto e indiretto sulla vita del cittadino, con la restituzione dei diritti di natura che gli sono stati negati. A quel punto però la persona dovrà essere in grado di collaborare, essere solidale e rispettare gli altri, non in virtù di un comandamento imposto dall’alto, ma per una sua scelta libera, matura e consapevole, in quanto riconosce nell’altro la stessa natura che percepisce in sé stesso, gli stessi diritti e gli stessi doveri. L’obiettivo sarebbe infine quello di realizzare pienamente contro l’ingiustizia e la diseguaglianza, l’ideale più alto dell’epoca moderna, ossia quello di una società orizzontale, senza classi né gerarchie, non volta tuttavia ad appiattire le differenze individuali, o ad omologare, ma a garantire a tutti, sulla base di inclusività e coesione sociale, la possibilità di esprimere la loro natura.

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